C’è un errore silenzioso, ma diffusissimo, che serpeggia sui campi sportivi di ogni categoria, dalle scuole calcio ai settori giovanili professionistici: confondere l’allenare con il comandare. Un errore che non si misura nei moduli tattici o nelle tabelle atletiche, ma nei silenzi di chi non viene ascoltato, nei talenti che si spengono per mancanza di fiducia, nei ragazzi che smettono perché non si sentono visti.
Allenare, nel senso più autentico, è un atto educativo, non autoritario. Non basta un fischietto e un blocco appunti per formare atleti. Serve molto di più: servono empatia, ascolto, capacità di comunicare.
E soprattutto, rispetto.
Eppure, c’è chi continua a confondere la disciplina con l’urlo, l’autorità con l’arroganza. Ci sono tecnici che sanno gridare ordini, ma non sanno cogliere una paura nascosta nello sguardo di un ragazzo che ha appena sbagliato un passaggio. Che sanno puntare il dito, ma non tendere una mano. Che “zittiscono” chi non è all’altezza, invece di guidarlo verso la crescita.
Perché è facile esaltare il talento, cavalcare la scia dei predestinati, godersi i riflettori che brillano su chi fa gol e dribbla con disinvoltura. Ma allenare davvero significa saper tirare fuori qualcosa anche da chi ha poco, da chi non brilla, da chi lotta ogni giorno contro i propri limiti. Lì si vede il valore umano di un allenatore. Lì si distingue il maestro dal burocrate del pallone.
In un mondo sportivo sempre più affollato da schemi, aspettative e classifiche, si rischia di dimenticare che ogni atleta è prima di tutto una persona. E spesso, il ragazzo meno talentuoso è quello che ha più bisogno di attenzione. Più bisogno di parole giuste. Più bisogno di qualcuno che creda in lui.
Con l’inizio della nuova stagione alle porte, questo è un promemoria per chi guida una squadra: il vero successo non si misura solo nei trofei, ma in quanti giovani escono dal campo sentendosi migliori, non solo come giocatori, ma come esseri umani.
Allenare è un privilegio, non un potere. È un atto di cura, non di controllo. È sapere quando parlare e, soprattutto, quando ascoltare.