C’è stato un tempo in cui il calcio era la festa di un paese, il vanto di una città, il sogno di un ragazzo che indossava la maglia del club per cui tifava da bambino. Quel tempo sembra lontano, travolto da un presente fatto di interessi, strategie di marketing e “squadre B” piazzate come pedine nel campionato di Serie C, trasformando una competizione di cuore e sacrificio in un parco giochi per le élite del pallone.
Mentre i club storici delle province lottano per non affondare tra bilanci impossibili e strutture inadeguate, i grandi del calcio italiano avanzano con le loro “Next Gen”, a suon di deroghe, rinvii, e squadre fatte di giocatori in prestito che fino a ieri calcavano i campi della B o della stessa C.
Lo ha detto senza troppi giri di parole anche il Presidente della Lega Pro, Matteo Marani, in una dichiarazione a dir poco sconcertante: «Per ogni seconda squadra che entra nella Lega Pro, c’è il sacrificio di una squadra che c’è e magari non ci sarà più. Ma bisogna guardare a un bene più grande». Il “bene più grande” — pare — è quello dei top club, che trasformano la terza serie in un cantiere per valorizzare i propri asset, altro che spirito sportivo e crescita dei giovani.
Quando la Serie C diventa un laboratorio per la A
Facciamoci una domanda concreta: chi ci guadagna davvero? I club minori no di certo. Alcuni come il Piacenza, storicamente presenti nel calcio italiano, hanno dovuto cedere il posto a formazioni “B” — come l’Atalanta U23 — create ad hoc, infarcite di ragazzi già esperti, molti dei quali l’anno prima erano titolari in altri club professionistici. Un altro paradosso? Le gare vengono rinviate per permettere ai giovani delle “B” di rispondere a convocazioni, mentre nessuno controlla se quei ragazzi erano stati aggregati alla prima squadra poco prima, falsando di fatto la competizione.
A rimetterci è sempre la regolarità del campionato e la dignità sportiva delle piccole realtà, quelle che animano la passione locale, che giocano in stadi difficili, con tifosi veri, sotto la pioggia, con la luce fioca e l’insegna di un bar come sponsor sulla maglia.
Il business batte l’identità
Nel frattempo, i tifosi vengono spinti a comprare divise sempre diverse, dai colori improbabili, che nulla hanno a che vedere con la storia del club. Il marketing ha preso il posto del sentimento. L’identità di una squadra, che passa anche da una maglia, oggi si baratta per un accordo commerciale. E il tifoso? Lo accetta in silenzio, a denti stretti, mentre magari guarda la partita il lunedì alle 18:00 perché “la TV lo chiede”.
Una Serie C al servizio dei grandi
Guardiamo i numeri: l’Atalanta B che ha affrontato la Triestina schierava 18 giocatori che avevano già esperienza tra Serie C e Serie B. Dove sarebbe il “progetto giovani”? Non è forse più realistico pensare che le seconde squadre servano solo a controllare il valore economico di un certo numero di giocatori sotto contratto, pronti per essere ceduti in prestito o rivenduti con plusvalenze?
La Juventus Next Gen ne è l’esempio perfetto: da anni sviluppa talenti, ma i migliori finiscono sempre altrove — Empoli, Frosinone, Sampdoria, Lazio — mentre la squadra B rimane in C, in una zona calda della classifica. E se retrocedesse in Serie D? Ecco che già si parla di modificare il regolamento per salvarla “in nome del bene comune”. Un bene che guarda caso coincide sempre con l’interesse dei top club.
Nostalgia o realismo?
Non è nostalgia, è disillusione. Il calcio vero è quello dei piccoli campi, delle rivalità locali, delle domeniche al freddo con la sciarpa al collo. È fatto di errori, emozioni e passione. Ed è proprio quel calcio che oggi viene sacrificato per far spazio a un sistema che gira a mille solo quando conviene ai pochi.
Non c’è più spazio per le Triestina, le Giana Erminio, i Lumezzane. C’è spazio solo per chi porta audience e fatturato. Ma forse, il calcio che vale davvero è proprio quello che resiste, testardo, lontano dai riflettori, tra il fango e gli spalti scrostati. Finché ci sarà anche solo un tifoso pronto a cantare per la maglia, allora ci sarà ancora speranza.