Un viaggio nella crisi profonda del calcio di base, tra numeri, abbandoni e speranze
Se vuoi capire quanto sta male un albero, non guardare le foglie. Guarda le radici.
Così vale anche per il calcio italiano: la vera crisi non è (solo) quella delle Nazionali che non si qualificano, dei club che arrancano in Europa o dei diritti tv in calo. La vera emergenza è quella invisibile: nei campetti di provincia, negli spogliatoi che odorano ancora di fango, nei settori giovanili e nel calcio dilettantistico.
I numeri parlano: una base che si restringe
Durante la pandemia il numero dei tesserati è crollato, passando da oltre un milione a poco più di 820.000: metà nel settore giovanile, metà tra i dilettanti. Ma la crisi non è finita con il Covid. Anzi, il virus ha solo fatto emergere problemi che già esistevano.
Sempre più ragazzi abbandonano il calcio prima dei 15 anni. Meno bambini iniziano. Le scuole calcio chiudono. I dirigenti si arrendono. E gli allenatori si trovano a gestire piccoli plotoni demotivati, più affezionati al telefono che al pallone.
“Il calcio non è più un sogno. È un passatempo tra TikTok e la PlayStation.”
— Un allenatore di Giovanissimi anonimo
Dalla voce dei protagonisti: la resa degli educatori
Il compianto Totò Schillaci, l’eroe di Italia ’90, chiuse la sua scuola calcio con amarezza:
“Non c’è più fame. Troppo benessere, troppa distrazione. I ragazzi mollano presto e i genitori li viziano.”
Una dichiarazione che, sebbene tranchant, trova eco in centinaia di altre testimonianze simili.
Allenatori accusati di pensare solo a vincere, dirigenti che improvvisano, sponsor che scappano.
Il calcio di base oggi non è più un percorso educativo, ma spesso una giungla in cui pochi resistono.
E altrove?
Mentre in Italia si tagliano i fondi, in paesi come Germania, Belgio o Olanda si investe sulla formazione, sulla rete territoriale, sulle strutture. Il risultato? A 18 anni, un ragazzo belga ha giocato quattro volte in più rispetto a un suo coetaneo italiano.
La differenza si vede poi, negli stadi e nelle convocazioni.
Il vaso di Pandora
I problemi del calcio dilettantistico italiano sono tanti e complessi:
- Dropout adolescenziale: la fascia 13–17 anni è quella a più alto tasso di abbandono.
- Allenatori non formati o narcisisti: allenano per vincere, non per educare.
- Genitori invadenti: trasformano la domenica in un tribunale ambulante.
- Mancanza di fondi: i piccoli club sopravvivono con sacrifici enormi.
- Mazzette, favoritismi, tesseramenti sospetti: il lato oscuro, difficile da estirpare.
Ma c’è ancora chi resiste…
Ci sono però anche storie che meritano di essere raccontate: club che promuovono il calcio inclusivo, allenatori che fanno lezione anche sotto la pioggia, dirigenti che si indebitano per tenere vivo un sogno.
Sono loro la vera frontiera del calcio italiano, quella che non si vede in TV ma che tiene in piedi il sistema.
Un calcio che misura la società
Il calcio di base è uno specchio del Paese: se non funziona più, è perché qualcosa si è rotto anche nella società. Meno gioco libero, meno socialità, meno sacrificio. Ma anche più sfiducia, più fatica, più solitudine.
Eppure, come nel mito del vaso di Pandora, in fondo resta la speranza.
Speranza che qualcosa possa cambiare. Che si torni a vedere bambini inseguire un pallone nel fango. Che il calcio torni ad essere scuola di vita.
Perché un gol in un campo di terra vale quanto una Champions, se nasce dalla passione.